Archivi per il mese di: febbraio, 2007

Ho letto un magnifico libro scritto dal collega Bolognini, che omaggio, sulla Grande Ungheria.

“La squadra spezzata” è la mitica nazionale ungherese di Puskás e Hidegkuti che dal 1950 al 1955 infilò una fantastica striscia: in 50 partite, 43 vittorie, 6 pareggi e una sola sconfitta. Peccato che quell’unica fosse la finale mondiale del 1954, persa contro la Germania 3-2 dopo un cammino trionfale (nel primo turno i tedeschi erano stati battuti 8-3).
Da qui, anche se poi le vittorie continuarono a fioccare, il meccanismo ben oliato della “squadra d’oro” (Aranycsapat, in lingua originale) cominciò ad incepparsi e – per uno di quegli strani paralleli che legano calcio e vita reale – iniziò la fine delle illusioni politiche anche dell’Ungheria che aveva creduto di potersi liberare dal giogo sovietico. Nel novembre ’56, dopo i metaforici panzer tedeschi, furono quelli siglati CCCP a stritolare ogni speranza.
Si spezza così, insieme alla squadra che pareva invincibile, anche il desiderio di libertà dell’Ungheria, visto con gli occhi di un ragazzo, Gábor Tuchtan, che prima si entusiasma alle imprese del suo eroe Puskas e poi vivrà una crescente e cocente disillusione, aumentata dal fatto che l’idolo abbia scelto l’asilo politico nella Spagna fascista, dove diventerà una stella del Real Madrid.
In questo libro, Luigi Bolognini intreccia la “rivoluzione” calcistica di Puskas e soci a quella reale, tentata da Sandor e compagni, con scrittura piacevole e profondità di analisi.
Ma da dove viene l’idea ad uno che non ha vissuto quei tempi?
“Ho letto Lo Stregone, la biografia di Indro Montanelli – spiega l’autore – che fu testimone di quei fatti e mi ha colpito la sua onestà intellettuale. In più, volevo ripercorrere le mie radici, perché ho una bisnonna astroungarica, di cui conoscevo solo il cognome, Tuchtan, che è poi quello che ho dato al mio protagonista”.
Bolognini narra di un calcio mitico, ma nemmeno troppo diverso da quello attuale, se è vero che molti tedeschi dopo la finale vittoriosa del ’54 vennero ricoverati per epatite. Sospetto di doping anche allora?
“Sospetto, nel senso che di prove non ce n’erano. Indizi, sì. Come Puskas che va nello spogliatoio tedesco e quando esce dice: “C’era odore di papavero, lì dentro”. Nel calcio di allora si usava di tutto e, viste le conoscenze scientifiche dei tempi, senza conoscere troppo le conseguenze. Adesso se un atleta prende il doping sa a cosa andrà incontro, anche se magari preferisce non pensarci. Ai tempi no. E il risultato è che molti sportivi di un tempo sono morti o stanno malissimo per malattie rare, tipo la sclerosi laterale amiotrofica, il morbo di Lou Gehrig. Probabile che ai tempi, magari senza saperlo, abbiano preso sostanze chimiche. Ma la vera differenza è che adesso il doping è più facile scoprirlo, tutto qui”.
Nel libro definisci “la squadra d’oro” uno dei piani quinquennali meglio riusciti di un regime comunista. I risultati sportivi come mezzo per aggregare il consenso, allora come oggi?
“Allora come sempre. L’Italia del 1934 qualche aiutino a vincere il Mondiale ce l’ebbe, per far contento il Duce. L’Argentina del 1978, anche se i giocatori fin dal look erano tutto tranne che filo-generali, trionfò anche perché così volle la dittatura di Videla. La ricetta per reggersi in piedi di ogni potente, democratico o no, è quella romana: panem et circenses. Riempigli la pancia e dagli qualche gioco con cui distrarsi. O, se non puoi entrambi, dagliene uno solo, ma tanto. Così fece l’Ungheria di Rakosi, il dittatore stalinista: cibo ce n’era poco perché questa nazione, un’immensa fattoria che produceva derrate alimentari in clamorose quantità, era talmente mal amministrata che sperperava tutto in sprechi e ruberie per le gerarchie. E visto che la scuola calcistica ungherese era tra le più rinomate d’Europa e da decenni produceva campioni e allenatori di grande livello, si decise di creare uno squadrone, selezionando i migliori giocatori, affinando l’aspetto tecnico e tattico a livelli di eccellenza. Adesso si parlerebbe di gestione manageriale. E i risultati di quella squadra aiutarono il regime a reggersi. Il simbolo della rivoluzione democratica che fu tentata da Nagy, più che qualche riforma, è il 6-3 all’Inghilterra”.
Hai cominciato a scrivere proprio con questo giornale, in provincia.
“È un periodo che ricordo con estremo piacere. C’era un bel clima umano. Non che mancassero i dissensi, ma mi veniva da paragonarlo al villaggio di Asterix, dove magari ci si scazzottava, ma in amicizia, e quando c’era da respingere l’assalto dei romani o da banchettare ai cinghiali si faceva sempre fronte comune. Ed era un caos creativo, perché secondo me facevamo anche ottimo giornalismo: inchieste, approfondimenti, riflessioni, prendevamo opinioni anche controcorrente, ci divertivamo anche, e cercavamo di fare divertire il lettore. Se a un certo punto ho deciso di andarmene è stato perché volevo almeno provare com’era il giornalismo a livello nazionale, finché ero ancora giovane. Purtroppo la Valtellina mi stava stretta, e purtroppo per la Valtellina è un problema che non ha riguardato solo me, ma la maggior parte dei giovani miei convalligiani, costretti dalle circostanze a emigrare”.
Cosa ti piace di più e cosa di meno del lavoro giornalistico?
“Odio l’economia, o meglio non ci capisco niente anche perché purtroppo i miei colleghi parlano un linguaggio da iniziati e non si degnano neppure di spiegarlo. Quando in un articolo leggo cose come “leverage buy out” mi viene quasi da abbandonare le mie convinzioni non violente e randellare chi l’ha scritto. Mentre prediligo lo sport e gli spettacoli, ma in realtà anche politica e cronaca non mi spiacciono. Però imposterei il ragionamento in un altro modo: quale tipo di giornalismo mi piace e quale no. E allora diciamo che non mi piace il 90% del giornalismo attuale: superficiale, forse superfluo, in cerca sempre e solo della polemica e della guerra (notata la fioritura di titoli con “crisi”, “scontro” e “choc”?), vippaiolo, con la televisione e il suo mondo come unico punto di riferimento, marchettaro, narcisista, alla fin fine poco corretto. L’ultima è quella dei giornalisti che si travestono per fare degli scoop, tipo quello che va in confessionale e racconta dei finti peccati per vedere se il prete lo assolve. Ma se un giornalista non è onesto nell’ottenere le notizie, chi mi garantisce che sia onesto nel raccontarmele?”.

 

Sondrio – (p.red.) Luigi Bolognini ha la capacità, oltre che di scrivere degli ottimi libri, di aggregare le migliori firme del giornalismo italiano alla sua. Così, dopo Gianni Mura che ha ispirato e scritto la prefazione di “Gli eroi son tutti giovani e belli” (Limina, 2003) e Roberto Beccantini, autore della prefazione di quest’ultimo “La squadra spezzata” (Limina, 2006) ecco arrivare a Sondrio Gianni Clerici per presentare la seconda fatica del giovane collega.
Clerici, uno dei massimi esperti mondiali di tennis, tra i pochissimi italiani nella Hall of Fame della disciplina insieme a Nicola Pietrangeli, martedì scorso al Salone dei Balli, in una serata moderata dal nostro caporedattore Edoardo Ceriani (“due comaschi ad uno, ti mettiamo in minoranza” ha fatto rilevare subito con ironia a Bolognini, al che lui ha replicato, “però con la platea vi sommergiamo”), ha sottolineato subito la qualità del lavoro dello scrittore sondriese. “E’ stato capace di una ricerca storica sorprendente per profondità ed accuratezza, ma anche di trovare un artificio letterario che tramutasse un saggio in romanzo”. La “rivoluzione” calcistica ungherese della “squadra d’oro” e quella politica del ’56 sono viste infatti attraverso gli occhi di un ragazzo, che nel proprio eroe sportivo Ferenc Puskas vede prima il riscatto al grigiore della vita di tutti i giorni, e poi la speranza di un riscatto dal giogo sovietico. Speranza che andrà in frantumi sotto i cingoli dei panzer siglati CCCP, dopo che quelli metaforici della Germania hanno travolto l’Ungheria per 3-2 nella finale di Coppa Rimet, ma anche perché gli eroi preferiscono chiedere asilo politico nella Spagna fascista. Inevitabile a questo punto la domanda di Clerici, interprete di un pensiero comune: come mai un giovane di oggi si interessa tanto a fatti accaduti mezzo secolo fa?
Bolognini ha risposto di trovarsi “ad essere un nostalgico di tempi che non ha vissuto”, di aver subito il fascino del calcio tecnico e fantasioso di una squadra che sembrava imbattibile, malgrado un centravanti con…pancetta (Puskas) oggi difficilmente pensabile in un football di atleti, capace di sconfiggere per 6-3 i disorientati inglesi a Wembley e che per lui è diventata metafora di una rivoluzione abortita, come quella dell’autunno ‘56. “Il ragazzo protagonista del romanzo, Gabor Tuchtan, porta poi il cognome di una mia nonna paterna e questo lavoro è stato anche il modo di riscoprire le mie lontane radici. E’stato bello andare a Budapest, passeggiare per quelle strade e piazze, conoscere i luoghi che i miei nonni hanno vissuto”.
Ceriani ha invece chiesto conto della dedica, struggente ma un po’ cripitica: “Ad Enzo, che nel ’56 sarebbe andato lì, a Samuele che lo avrebbe cantato”. Luigi ha spiegato che Enzo è Baldoni, il giornalista morto in Iraq, che sicuramente avrebbe raccontato quegli avvenimenti, come fece Indro Montanelli, con grande sincerità. E Samuele è Bersani, che a Baldoni ha dedicato una canzone. “Due persone che, per motivi diversi, sento vicine e in qualche modo fanno parte di questo libro”.

L’epopea della Grande Ungheria di Kocsis, Puskas e Hidegkuti, dal trionfo di Wembley alla delusione dei Mondiali di Germania alla diaspora dopo la rivolta antisovietica del 1956. Tutto rivisto con gli occhi del giovane tifoso Gabor. Quando il calcio illumina la Storia.

 

 

Talvolta il calcio assomiglia alla vita e talvolta addirittura assurge a metafora della Storia: negli anni più recenti ce l’hanno dimostrato potentemente libri come La vita è un pallone rotondo di Vladimir Dimitrijevic o Il mio nome è Nedo Ludi di Pippo Russo. Ma il calcio ha mille declinazioni e qui il giornalista di Repubblica Luigi Bolognini ce ne offre una nuova e molto suggestiva, tutta racchiusa, forse, in una frase pronunciata a un certo punto, quando ormai il destino sta compiendosi, da Gusztav Sebes, commissario tecnico della grande nazionale di calcio ungherese, cui è dedicato questo piacevole libro, La squadra spezzata (Limina, pp.149, euro 14): “Se avessimo vinto due anni fa, non ci sarebbe stata alcuna rivoluzione”. Anche questo può essere il calcio: il tentativo di riscatto dalla Storia, fallito il quale non rimane che affrontare la vita vera. Ecco, il calcio non può riscattare la vita, sembra insegnare la parabola della grande Ungheria e sembra voler dire Bolognini attraverso la descrizione di questa parabola: può appena consolarla, ma comunque poco e non a lungo.
Tutto ciò che racconta Bolognini è reale: sono realmente accaduti gli eventi e sono realmente esistiti i personaggi, che hanno realmente respirato il clima che Bolognini descrive. Non è reale – ma potrebbe esserlo – solo il protagonista del libro: Gabor, che ha dieci anni all’inizio del racconto e sedici alla fine e che semplicemente e dolcemente ci offre il suo sguardo sulle cose. La storia ha la forma del romanzo ma i contenuti del saggio calcistico e storico: Gabor ci mostra la Budapest di quegli anni – dal 1950 al 1956 – durante i quali la grande Ungheria di Puskas vinceva dappetrtutto, tutte le partite, contro tutte le squadre, anche contro l’Inghilterra di matthews e Mortensen, battuta a Wembley nel 1953, nel match del secolo, 6-3, e poi battuta ancora, nel secondo match del secolo, a Budapest, pochi mesi dopo, 7-1. Quella grande Ungheria vinse tutte le partite giocate dal 1950 al 1956 e vinse l’Olimpiade del 1952; vinse tutte le partite tranne una, la finale della Coppa Rimet del 1954, contro la Germania Ovest già battuta nel girone iniziale 8-3.
Fino a quella finale, la bellezza del calcio aveva consolato Gabor della Storia; anzi lo aveva illuso – com’erano illusi molti e come pure molti probabilmente lo saremmo stati, se non fossimo venuti dopo – che la Storia non fosse ciò che era e che il comunismo fosse ciò che avrebbe potuto essere. Fino a quel momento, l’invincibilità della grande Ungheria aveva invece fatto credere a Gabor che anche il comunismo fosse destinato a vincere entro breve; e Budapest sembrava meno grigia di quel che era, la mancanza di cibo sembrava meno assillante e persino il vuoto dell’avvenire sembrava pieno. Ma quel giorno tutto cambiò e fu proprioquella sconfitta che Budapest conobbe la prima contestazione e che Gabor passò la propria linea d’ombra, nel dialogo rivelatore con il suo miglior amico, Sandor: “Serviva perdere la Rimet per ribellarsi. Per la dittatura non protesta nessuno”, dice infatti Sandor; “La dittatura del proletariato, però”, ribatte Gabor; e Sandor: “Proletariato? Apri gli occhi, Gabor. Dove lo vedi il proletariato al potere? Io, tu, noi, tutti siamo proletari. E nessuno di noi ha il potere, anzi nessuno di noi ha nulla e basta”.
È vero: quella contestazione durò il lampo di una notte e la nazionale continuò a vincere tutte le partite anche nei due anni successivi, e Puskas continuò a fare gol. Ma tutto ormai era crollato, perché troppo enormi erano le speranze: era crollato il senso dell’ineluttabilità di tutti i destini, individuali e collettivi. E tutto precipitò. La rivoluzione del ’56 fu improvvisa come la rimonta della Germania Ovest nella finale della Coppa Rimet e tuttavia Gabor l’aveva percepita nell’aria come aveva presentito la rimonta; e fu e significò molte cose, e fu l’inizio di alcune e la fine di altre. Per quel che qui interessa, fu e significò la fine della grande Ungheria, che in quei giorni era all’estero a giocare delle amichevoli e la cui gran parte dei giocatori mai più fece ritorno in patria, Puskas vi tornò soltanto nel 1992, dopo essere stato ancora grande nel Real Madrid e dopo essere stato meno grande come allenatore di tante squadre fra quattro continenti; e vi è morto pochi mesi fa.Soprattutto, a Gabor è sempre restato il brutto dubbio che sia stato più grande come calciatore che come uomo; ma forse questa considerazione è solo romanzesca, perché troppo tortuosi sono certi destini per concluderli in un giudizio definitivo.

Un’altra firma prestigiosa del giornalismo sportivo italiano si accompagna a quella di Luigi Bolognini, che ieri ha presentato a Sondrio il suo ultimo libro, “La squadra spezzata”, per Limina. Dopo Gianni Mura, maestro ed ispiratore del primo lavoro (“Gli eroi son tutti giovani e belli”), Roberto Beccantini che ha scritto la prefazione di questa seconda fatica, ecco Gianni Clerici, uno dei massimi esperti mondiali del tennis, inserito nel 2006 nella Hall of Fame della disciplina insieme a Nicola Pietrangeli, far capolino a Palazzo Sertoli insieme al giovane collega per l’incontro moderato dal caporedattore del nostro giornale, Edoardo Ceriani.
Clerici con la consueta acutezza ha subito sottolineato la qualità del lavoro di Bolognini: «E’ stato capace – ha detto – di una ricerca rigorosa e di scovare un artificio letterario che tramutasse in romanzo un saggio storico sull’Ungheria prima “rivoluzionaria” nel calcio, con la leggendaria squadra d’oro di Puskas ed Hidegkuti, e poi nella politica: il tutto è visto con gli occhi di un ragazzo che prima sarà entusiasmato e poi deluso dai suoi eroi». L’autore si è poi sottoposto di buon grado alle domande dei presenti, che non sono mancate, a conferma dell’interesse suscitato da un libro che, pur riferendosi a tempi lontani ha il fascino dell’indagine storica e insieme della narrazione. Come ha sottolineato una signora presente «leggendo queste pagine pare proprio di vedere svolgere quelle partite, in attesa del gol che puntualmente arriverà». Una bella soddisfazione per l’autore, indipendentemente dalle ottime recensioni fin qui avute («mi stupisce che non ce ne sia stata nemmeno una negativa», ha rilevato con modestia) sulla stampa italiana e del migliaio di copie bruciate in una settimana.
Ceriani ha chiesto a Bolognini anche la ragione della doppia dedica, un po’ criptica: «a Enzo, che sarebbe andato a là, a Samuele che l’avrebbe cantato». Bolognini ha rivelato trattarsi di Enzo Baldoni, il quale sarebbe sicuramente stato spinto dalla sua sete di verità e Samuele Bersani che nell’ultimo album ha dedicato una canzone al giornalista italiano. Paolo Redaelli

Il calcio come gioco che affascina ancora la fantasia di occhi fanciulli (con un raggio di età che può diventare diametro della vita, pascolianamente parlando) in una con testualità dominata dalla tecnica, dalla velocità, da vari livelli di interessi economici intersecantesi. E’ il paradosso vichiano del secolo XXI. Siamo nell’età degli uomini, della ragione cinica ed esasperata. Cosa ci rimane per sognare? La storia.

Ci viene in soccorso lo stesso Vico. La storia di un gioco che si è dipanata da oltre un secolo, la storia fatta solo da uomini per gli uomini ed è possibile tornare all’età degli dei, quando imperava l’oralità nella comunicazione e le divinità del football erano modellate dalla fantasia di ingenui fedeli ma solari. E ci si adopera a indagare lontano, in un tempo non vissuto, su chi ha permesso che la storia facesse il suo cammino, si va a pescare in una sorta di innatismo platonico, con attenzione sacrale. Impresa compiuta da Luigi Bolognini con il suo accattivante La squadra spezzata. Si tratta della Honved, compagine di caratura eccelsa, succeduta al Grande Torino nell’illuminare con luce purissima gli anni grigi della ricostruzione post bellica prima e torbidi della Guerra Fredda poi.

Dal 1949 al 1954 si dipanano le vicende straordinarie dell’undici magiaro, Una squadra perfetta nei meccanismi di attacco, forgiata dall’intelligenza tattica di Sebes. Il centravanti arretrato, Hidegkuti faro di lunga gittata, le velocissime estreme Czibor e Budai frecce velenose, Kocsis e Puskas, interni convergenti al centro, il primo signore degli spazi aerei, il secondo spietato realizzatore. Con un sinistro di devastante potenza e di chirurgica precisione.

La difesa non era immune da pecche, ma il terzino Burzansky sapeva avanzare con sagacia sulla fascia destra, il portiere Grosics dava affidamento e soprattutto riusciva a incanalare il gioco con precise rimesse in gioco con le braccia destinate ai piedi sapienti di Bozsik a centro campo (115 palloni smistati alla perfezione a partita). Il regime comunista di Rakosi si trovò una “squadra d’oro” (l’Aranyscapat) la Honved più alcuni elementi dell’MTK da incensare come capolavoro del regime del popolo. Furono cinque anni di successi entusiasmanti, culminati con la vittoria alle Olimpiadi di Helsinki e soprattutto con le due stratosferiche vittorie sugli inventori del calcio, gli inglesi schiaffeggiati a Wembley per 6 a 3, surclassati a Budapest per 7 a 1.

Squadra amata da tutti, anche dal Mondo Occidentale, squadra che avrebbe dovuto arrivare là dove Sarosi e Titkos fallirono nonostante il bel gioco fornito contro gli azzurri di Pozzo a Parigi nel 1938. Erano spalancate le porte sul tetto del mondo. Ma gli dei improvvisamente tornarono ad essere mortali, gli eroi scoprirono di avere vulnerabile il tallone, proprio come Achille. Proprio come Puskas, che contro la Germania Ovest, nell’incontro del girone eliminatorio vinto per 8 a 3, per la frenesia del piacere sublime del gioco, fu vittima di un incidente di gioco causatogli dal mastino Liebrich. Era finita l’età degli dei.

Ritornò a giocare la finale della Coppa del Mondo contro gli stessi tedeschi, la caviglia era dolorante, la pioggia scrosciava perfida da rendere di marmo il pallone. Non c’era più nulla da ricamare. Sul 2 a 3, Puskas segnò il gol del pareggio, ma il guardialinee inspiegabilmente lo annullò. L’oro in fango. E non c’era più la figura eroica di Kocsis che, in un 12 a 0 rifilato all’Albania agli albori della storia, sembrava Ercole che colpiva di testa il sole. Ora c’era Puskas che stava scivolando nelle sabbie mobili degli inferi. E c’era per la prima volta la televisione. La magica oralità del radiocronista Szepesi stava per perdere la sua dimensione oracolare.

Nell’età degli uomini i giochi innocenti devono essere mortificati. Sentenzia Roberto Beccantini in una di quelle prefazioni dopo le quali è difficile indagare altri aspetti del testo proprio per la lucidità sintattica e per la leggerezza dell’affabulazione (ubi major, minor cessat) che non bisogna aspettarsi nel libro di Bologini numeri da foca, perché “Luigi non è un acrobata, ma è un esploratore”.

E dopo il tracollo di Berna, il libro prende una piega di vero romanzo. Protagonisti i giovani che hanno visto sbocciare la Aranyscapat, proiezione luminosa dell’amara quotidianità, che hanno capito con l’irruenza della gioventù il tumultuoso cambiamento dei tempi. La squadra spezzata genera la generosa rivolta ungherese contro l’oppressione sovietica. E Bolognini ci conduce per mano nelle imprese di Gabor e di Lajos. Le chitarre contro i carro armati. L’incoscienza di Gabor che indossando la maglia rossa numero 10 di Puskas cerca di dribblare il destino.

Una storia affascinante, eternata dalla grazia della letteratura, che ci emoziona e ci è maestra “finchè il sole risplenderà sulle sciagure umane”.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/Libri/grubrica.asp?ID_blog=54&ID_articolo=&ID_sezione=83&sezione=In%20chiostro%20sportivo

Duemila fiorini
Puskas, l’Ungheria, i carriarmati e la rivoluzione della squadra che perdeva solo se lo chiedeva Stalin

Millenovecentocinquantasei, l’Ungheria, Budapest, la Honvéd, l’Aranycsapat e Puskas. Il capo del governo, Rákosi, aveva promesso duemila fiorini a testa, il partito aveva appena varato il suo piano quinquennale, con lo statalismo, il collettivismo, la Russia, la squadra, la patria. La Honvéd era la squadra dell’esercito, e i giocatori – così li chiamavano – erano i difensori della patria. Questo voleva dire, Honvéd. A Budapest di squadre vere ne erano rimaste solo tre, fino al 1956. C’era l’Honvéd (con Puskas), c’era il Vörös Lobogó e la M.T.K. 1952, 1953, 1954 e poi ancora 1955 e 1956, primo campionato, secondo, terzo e poi quinto. Dal 5-3 contro l’Austria fino alle Olimpiadi del 1952 la Nazionale e la Honvéd, che praticamente erano la stessa cosa, non avevano perso neanche una partita, qualche pareggio poi solo vittorie e una sconfitta a Mosca ma con un arbitro russo e con Stalin, dicevano così, che non ci teneva particolarmente a perdere. E infattì non perse. Ma dal 1950 al 1956 la Nazionale ungherese non aveva perso quasi nessuna partita. Honvéd voleva dire soldato, Puskas voleva dire cecchino. Anche quella fu una rivoluzione, anche quella fu una delle squadre più forti di sempre. La Honvéd vinceva ovunque, e Rákosi sapeva che quella era davvero una rivoluzione, e sapeva che la squadra era il partito che il partito era lo stato e che a Helsinki, alle Olimpiadi, contro la Jugoslavia di Tito una sconfitta non sarebbe stata tollerata, soprattutto perché quella era la Jugoslavia e perché quella era la finale del 1952. Puskas e i suoi compagni erano, tecnicamente, dilettanti perché, ufficialmente, facevano parte dell’esercito e dipendevano tutti dal ministero (anche se quando andavano al poligono per sparare le armi tendevano a nasconderle) mentre Gusztav Sebes, l’allenatore della Nazionale, oltre che essere coach lavorava anche al ministero dei Beni culturali, come racconta Luigi Bolognini in La squadra spezzata (edizioni Limina, 14 euro). Come se Rutelli allenasse Totti.
L’Ungheria vinse anche quella gara, continuava a segnare, a non perdere, a essere – come dicevano nel partito – “la perfetta applicazione del socialsimo”. Se vinceva la Honvéd vinceva anche tutto il partito e tutto funzionava e tutto era perfetto. Solo che poi iniziarono a perdere, due anni prima che i carriarmati russi arrivassero a Budapest, pochissimi anni dopo che Puskas diventò il primo uomo nella storia ad  attraversare il ponte delle Catene che collegava la città vecchia, Pest, con quella nuova Buda. Era il 1954, l’Ungheria era in Svizzera, coppa del Mondo, di là la Germania Ovest, di quà la grande Aranycsapat di Puskas e Bozsik. Alle 17.15 Radio Budapest aveva già trasmesso prima l’Himnusz, poi l’Internazionale e quindi tutta la formazione ungherese. Si comincia, due a zero, poi due a uno e ancora due a due. Era l’ottantaquattresimo, quel fottutissimo arbitro non fischiò, Bozsik perse la palla, si fermò lì al centro del campo, arrivò Schafer, Bozsik rimase a terra, palla a Rahn, passa un secondo, cross, poi il sinistro e palla in rete. Dopo due minuti l’Ungheria pareggia. Sarebbe tre a tre, ma il gol era in fuorigioco e l’Ungheria perse dopo sei anni di vittorie, due anni prima che i carriarmati arrivassero a Budapest e un anno dopo uno dei più grandi successi, quello di Wembley, quando l’Aranycsapat aveva giocato con l’Inghilterra, aveva vinto per sei a tre, Puskas aveva già iniziato a contrabbandare rasoi per arrotondare lo stipendio da operaio e Sebes continuava a dire che una squadra così non poteva perdere. Non poteva perdere mai. Come l’armata rossa. Poi arrivò la Germania e arrivarono i carriarmati, perse anche la Honvéd e Puskas andò in esilio, tornò a Budapest e poi a Madrid, prima di morire, lo scorso novembre.
Il 2 aprile avrebbe compiuto 80 anni.

Mercoledì 21 marzo alle 20.30 sarò a Porlezza (Co) alla libreria “Noesis libri e caffè”, viale Rimembranze 13.

Per motivi tecnici (si è rotto un macchinario in tipografia) la seconda edizione tarderà ancora 2-3 giorni. Se non lo trovate in libreria, il consiglio è di prenotarlo.

Martedì 20 Febbraio sarò a Sondrio, nel Salone dei balli di palazzo Sertoli, a presentare il libro assieme a Gianni Clerici. Modera Edoardo Ceriani. Ore 18.