Esce oggi in libreria La squadra spezzata (ed. Limina, 149 pagine, 14 euro), la seconda fatica letteraria di Luigi Bolognini, giornalista sondriese che – partendo dall’esperienze sulle colonne del settimanale La Provincia di Sondrio – è poi arrivato alla redazione di La Repubblica, il quotidiano per il quale ancora oggi lavora. Così, dopo Gli eroi son tutti giovani e belli, ecco un romanzo brioso e godibile, che parte sì da una vicenda sportiva, ma che ben presto – grazie a Gabor, protagonista forse un po’ autobiografico – diventa un’avvincente vicenda a tutto tondo. Il racconto di un’epoca che ha fatto storia, anche e soprattutto per l’Aranycsapat di Puskas e per la rivoluzione ungherese del 1956. Bolognini quei fatti non li ha vissuti. Ma ha studiato e si è documentato. Soprattutto si è innamorato perché soltanto un innamorato può intingere il pennino nell’inchiostro della memoria e regalare sensazioni ed emozioni come quelle che sono in un libro che gode della prefazione di Roberto Beccantini, una delle migliori firme italiane.
I lettori non si spaventino e non pensino a un romanzo grigio, fotografia di un’era lontana e imprendibile. Calcio e comunismo vengono esaltati dalla prosa dell’autore, ma sono solo il pretesto per un bel salto nella memoria e per centotrentacinque pagine che filano via tutte d’un fiato per quanto sono ben scritte e strutturate. Uno sforzo che conferma quanto Bolognini abbia ha cuore la ricerca e le storie: questa non è da perdere, visto che di fantasia c’è solo il protagonista.
Il resto è realtà vera e propria, mai artefatta e sempre è pronta a regalare vibrazioni a ogni pagina. Toccanti le dediche: a Enzo (Baldoni, il giornalista rapito e trucidato in Iraq) e a Samuele (Bersani, il cantautore che all’amico e collega di Bolognini ha dedicato una canzone). (e.c)
Bolognini, perché proprio l’Ungheria e fatti lontani addirittura sedici anni dalla tua nascita?
«Tutto comincia da una bisnonna da parte di papà. La sua era un’origine austroungarica, una suddita dell’impero. E io ho voluto ripercorrere quelle tracce».
Ma ci sarà pur dell’altro…
«In effetti, l’idea è nata a fine luglio, dopo aver letto una biografia di Montanelli, Lo stregone. Un viaggio professionale fino all’Ungheria, e anche particolarmente reazionario, se devo essere sincero. Raccontò la rivoluzione del ’56 così come l’aveva vista. Come un fatto quasi di sinistra, che non mirava a gettar via tutto quello che fu comunista, ma che puntava invece a modificarlo. E la grande realtà intellettuale di un uomo che avrebbe potuto anche cavalcare l’evento, dandone una visione distorta, mi ha conquistato».
E ti ha convinto: quella che era solo un’idea è poi diventata pratica.
«Ho deciso allora di telefonare all’unico editore che conosco di persona, il mio. “Se me lo consegni entro ottobre, si può fare”. Avevo due mesi, non di più. Sembrava un’impresa impossibile, invece gliel’ho fatta, anche perché mi considero uno di quelli per i quali è “buona la prima”, quindi in corsa ho poi cambiato ben poco rispetto a quello che ho scritto subito».
Con una punta di rammarico, però…
«Mi spiace aver perso la coincidenza con il cinquantennale, ma in Italia va bene lo stesso».
Come, «in Italia»? Non starai mica pensando di sbarcare anche in Ungheria?
«Un pensierino alla traduzione l’ho fatto. Così come ho fatto leggere il libro a un giornalista ungherese figlio di un giovane diplomatico ai tempi della rivoluzione, poi diventato ambasciatore nel nostro Paese. La storia è piaciuta, soprattutto è reale, ma il mercato editoriale magiaro, adesso e dopo la morte di Puskas, è invaso di libri e pubblicazioni sul campione. Potrebbe esser curioso, forse, solo il fatto che ha scrivere sia uno che viene da fuori».
Puskas, la Nazionale, la Honved e l’orgoglio di un popolo intero. Ci fosse un Bolognini d’Ungheria, su cosa si potrebbe buttare? Sul grande Torino?
«Per analogie con il mio racconto, in un intreccio tra calcio e politica, vedrei meglio la Nazionale di Pozzo, quella dei Mondiali del ’34 e del ’38, con forti connessioni con il regime. Però sì, il grande Torino sarebbe un bell’esempio italiano».
Lavorando su una di queste due squadre di sicuro avresti fatto meno fatica.
«Questo è certo, anche perché adesso non è facile districarsi in Ungheria e infatti ho dovuto rifarmi a testi inglesi e americani. A Budapest ci sono fonti che dicono una cosa, altre che raccontano l’esatto contrario. Non c’è, ad esempio, una sola pubblicazione sulla grande Nazionale che spaventò il mondo».
E allora chi ti ha aiutato?
«Internet, in prima battuta. Poi il fatto di essere andato sul posto e di essere entrato in contatto con alcuni colleghi. In Ungheria il calcio è praticamente azzerato, ora sono folli soltanto per il campionato italiano. Pensate, c’è una tv a pagamento che trasmette il nostro torneo 24 ore su 24. E i giornali di sport aprono regolarmente con titoli su Cannavaro o sull’Inter. Ventun anni senza partecipare a un Mondiale sono un dato che comincia a pesare come un macigno».
Ma almeno l’orgoglio è rimasto…
«E lo testimonia la morte di Puskas: tre giorni di lutto nazionale e mezzo milione di persone ai suoi funerali».
E della rivoluzione cosa è rimasto?
«In questi periodi, dopo anni senza farne cenno, se ne è tornato a parlare: gli ungheresi continuano a essere divisi. Qualcosa è riecheggiato nelle proteste popolari dell’ottobre scorso».
Nel frattempo, tu di Puskas ti sei innamorato e tra le righe del romanzo ti si vede lì, sugli spalti a tifare e ad arrabbiarti…
«Mi ha colpito, e parecchio, la mole, per un calcio che non c’è più. Pensate a un fatto: lui era grassottello, Garrincha aveva una gambia più corta dell’altra… Roba d’altri tempi. Prendete invece all’Inter di adesso, somiglia più a una squadra di basket».
Ma Puskas ci starebbe ai giorni nostri?
«Era un mix tra Baggio e Riva, ve lo immaginate? Estro da vendere e un sinistro potentissimo. Un po’ rotondetto e pigro, però: forse avrebbe fatto faville, forse non sarebbe emerso».
Di certo non era solo un eroe “giovane e bello”, ma molto di più…
«Lui però non voleva essere un eroe. Non era comunista, anzi amava – e molto – il soldo, ma quando il regime chiamava, arrivava, premiava i bambini e magari alzava il pugno sinistro al cielo. Ma era anche quello che faceva contrabbando di collant, che andò a giocare nel Real Madrid franchista e che, alla fine, si è anche dovuto trasformare in eroe, per tentare – grazie al calcio e ai guadagni – una fuga in Occidente non solo per lui ma anche per tutta la sua famiglia».
C’è più realtà o fantasia nel libro?
«E’ praticamente tutto vero, a parte il personaggio, che però è una sorta di frullato di tutto quel che c’era. A Gabor, ad esempio, ho voluto dare il cognome di mia bisnonna, per il resto penso di aver fatto un lavoro abbastanza intenso».
E lo si vede anche nei dettagli.
«Volevo esser preciso. Ed è forse per questo che alla fine amo più La squadra spezzata del libro che scrissi prima. E’ una scommessa, ma è anche un’esperienza che sento più mia».
http://www.laprovinciadisondrio.it/PolComo/20070119/pdf/SO1901-SOSP02.pdf
(Edoardo Ceriani, La Provincia di Sondrio, 19 gennaio)